Sergio Beraldo*
«L’Italia non trova pace», esordisce Gianni Molinari, con una premessa davvero godibilissima che da un lato riporta all’Ennio Flaiano di «la situazione è grave, ma non è seria», dall’altro a Boris Pasternak, che nel dottor Zivago fa dire «E’ successo più volte nella storia, quello che era stato concepito come nobile e alto è diventato rozza materia».
La situazione è grave, ma non seria, perché, come scrive Gianni, dal 1994 non c’è elezione politica che non si trasformi in un ok corral…ogni campagna elettorale è etichettata come la peggiore della storia, e sempre si configura come una resa dei conti: tra aree geografiche, paesi, classi sociali, e, naturalmente, capibanda.
D’altronde quello che era stato concepito come nobile e alto diviene rozza materia. L’etereo volteggiare della campagna elettorale, le accattivanti promesse, la visione delle magnifiche sorti e progressive: tutto diviene rozza realtà; l’ottimismo dei proclami che annunciano un mondo migliore deve tenere conto dei vincoli che la realtà inevitabilmente pone.
E Gianni ricorda subito come il nostro Paese sia profondamente cambiato. Come il vincolo più stringente sia dato proprio dall’essere il nostro, ormai, un paese certo più vecchio senza forse essere un paese più saggio, con la speranza di vita innalzatasi velocemente nel giro di un quarto di secolo.
D’altro canto tutte le rivoluzioni, finte o vere che siano, debbono tenere conto dei vincoli, e i periodi di restaurazione sono proprio ciò che ricorda ai rivoluzionari che i vincoli esistono.
Dopo il 4 marzo ho spesso ripensato alla Fattoria degli animali, lo straordinario capolavoro di George Orwell, metafora non solo della rivoluzione francese o di quella russa, ma di tante altre rivoluzioni a seguito delle quali chi prende il potere lo gestisce in modo anche peggiore rispetto a chi lo aveva preceduto.
Ma questa è una rivoluzione particolare, ci avverte Gianni; la rivoluzione orizzontale dei social che insidiano le regole della democrazia vera.
Già negli anni ’90 il compianto Giovanni Sartori metteva in guardia dalla democrazia cosiddetta referendaria. La democrazia in cui ciascuno vota comodamente da casa su singole questioni con un «si» o con un «no»; senza parlarsi, senza la possibilità della mediazione e dunque esacerbando i conflitti; ma soprattutto senza nulla sapere delle questioni.
Il web sta trasformando la gente in figure che paiono tratte da un bestiario infame; un elenco di macchiette ignobili e arroganti.
Norberto Bobbio sosteneva, ne Il futuro della democrazia, che una delle promesse non mantenute da questa forma di governo è la produzione di cittadini bene educati. Cittadini che possono proficuamente partecipare al discorso pubblico.
Vi sono stati anche in passato attacchi alla cultura. Penso però sia la prima volta nella storia della Repubblica in cui si stabilisce una tendenza a condannare la cultura. La tendenza a fare della propria ignoranza un motivo di vanto. Perché l’ignoranza è del popolo, la cultura è delle elites, e le elites vanno contrastate, come va contrastata la cultura.
Ricordo che una volta il mio vescovo disse pubblicamente: «sforzatevi di imparare, amate la cultura; cosa può testimoniare uno che non sa niente?».
Gianni dipinge il paese così com’è, un po’ prostatico e sdentato, affaticato; incapace di cambiare le norme fondamentali della convivenza. Un paese in cui la burocrazia la fa da padrona e le regole vengono utilizzate come un grimaldello per scardinare quello che di buono la società civile produce. “Ecco la trama della terza Repubblica. Fonda le sue basi sulla fine dei corpi intermedi”, scrive Gianni; una Repubblica in cui i leader possono redimersi dalle vane promesse evocando le trame oscure ordite da impenetrabili poteri forti, dalla Finanza senza volto, dalla troika.
Su questo sfondo si stagliano le 60 storie che Gianni ha raccolto. Sono storie di gente minuta, come direbbe Manzoni; ma le loro storie s’intrecciano con la Storia con la maiuscola. E ciascuna di queste storie merita d’essere raccontata. Non perché sia necessariamente edificante. Non credo che l’intento di Gianni fosse quello di scrivere 60 agiografie. Emblematica a tal riguardo è la storia di Carmela L., messinese, che sfrutta in modo furbesco tutti gli espedienti che la legge mette a disposizione per evitare di trasferirsi a Milano per l’insegnamento.
Queste storie meritano di esser raccontate perché sono in qualche modo emblematiche dell’Italia pulsante; quella viva; quella che innerva e dà corpo all’edificio che osserviamo ponendoci ad una certa distanza.
Il racconto delle storie procede tra la poesia e la cronaca.
Io penso che appena prima di scoccare il suo primo bacio, Gianni abbia chiarito alla sua donna una serie di cose del tipo: quanti baci sono schioccati in Italia in un dato lasso di tempo; quanto durano in media e così via. Gianni è ossessionato dal dato. Però è una ossessione molto proficua per il lettore, perché ha il tempo di rendersi conto, in finale della storia, quanto quella storia, con tutte le altre storie dello stesso tipo, sia poi importante per la Storia con la maiuscola. Io credo che in fondo l’ossessione per il dato, a parte per il suo passato di economista, derivi dall’essere egli un cronista vero. Un osservatore scrupoloso della realtà.
Attenti che Gianni vi guarda, vi scruta, vi ha già inseriti nella prossima sua storia.
Ma il libro è anche poesia. E man mano che si procede, questa poesia, timida e involuta nelle pagine iniziali, si dipana in modo benigno tra i profumi di gelsomino, il parmigiano dei Sikh, il radicchio del sud che aveva conquistato l’Europa.
*Sergio Beraldo è Professore associato di Economia politica presso l’Università di Napoli ‘Federico II’ e research fellow del Center for Studies in Economics and Finance (CSEF). I suoi interessi di ricerca ricadono nell’ambito dell’Economia pubblica e della Teoria economica delle istituzioni. Ha partecipato alla presentazione del volume a Potenza lo scorso 14 giugno 2018